"Abandoned places" intervista a Nicola Bertellotti

Come e quando è avvenuto il tuo primo approccio alla fotografia?
«Il mio approccio al mondo della fotografia è avvenuto otto anni fa, grazie ad una serie intitolata Penguin Dust. Allora acquistai in una galleria d’arte un pinguino fermaporte di un artista francese e da quel momento cominciai a scattargli foto in giro per il mondo, un po’ come al famoso “nano d’Amélie”. Realizzai anche un sito e del merchandising, allo scopo di creare seguito attorno al pinguino».

Tuttavia devo dedurre la tua fotografia non si limitasse a questo genere…
«Assolutamente no, infatti durante i miei viaggi il mio obiettivo fotografico è sempre stato rivolto al tentativo di catturare la bellezza della realtà a me circostante. Il genere che sento più mio è sicuramente quello della fotografia di viaggio, per l’appunto: in passato ho “rubato” il volto a donne meravigliose nei souk di Marrakech, ho colto la magia delle notti bianche di San Pietroburgo, fino ad arrivare agli Stati Uniti e a tutto il Medio Oriente».

Commentiamo insieme le foto di Alidem e cominciamo per esempio da
Caryatids.
«È uno scatto recentissimo che risale all’agosto del 2015. Si tratta di una villa dal passato nobile che oggi purtroppo versa in uno stato di totale abbandono. Ciò che mi ha colpito maggiormente di questo luogo è stata la differenza tra l’esterno e l’interno, infatti vista da fuori la villa assomiglia quasi a un casolare, mentre dentro si presenta in maniera assai maestosa».

A proposito di luoghi abbandonati, come mai hai deciso di concentrare la tua attenzione proprio su questi soggetti?
«Perché questi luoghi costituiscono delle vere e proprie testimonianze della stratificazione della storia che meritano l’attenzione di tutti. Da studioso di storia quale sono, in passato ho visitato per esempio la casa abbandonata nel vercellese dove è cresciuto Camillo Benso Conte di Cavour, a Locarno invece ho fotografato la stanza dove è deceduto l’anarchico Michail Bakunin. E poi l’emozione che provo è immensa, onestamente all’orizzonte non vedo altri soggetti in grado di trasmettermi sensazioni così profonde».

Torniamo alle foto di Alidem. Dov’è stata scattata Götterdämmerung?
«Questa volta si tratta di una villa nel mantovano appartenuta forse a diverse famiglie benestanti che si sono succedute nel tempo, tra le quali si ipotizzano i Gonzaga. È da circa trenta/quarant’anni che è abbandonata. Probabilmente nella stanza che si intravede nella foto deve aver soggiornato un artista, in quanto piena di quadri su cavalletti e attrezzature del mestiere. È molto raro trovare oggetti in spazi disabitati, poiché spesso e volentieri le stanze vengono completamente depredate da vandali e ladri».

Cosa significa il titolo?
«Significa ”Il crepuscolo degli dei” in tedesco, è ispirato alla “Caduta degli dei” di Luchino Visconti, ma vuole essere allo stesso tempo un omaggio a Richard Wagner. Nel film del noto regista italiano si parla infatti delle vicende di una famiglia agiata che, in epoca nazista, cade in disgrazia in seguito a varie peripezie: un tema che mi è sembrato calzare perfettamente con il soggetto della fotografia. Nonostante i diversi crolli dovuti ai recenti terremoti in Emilia, nella villa si possono ancora intravedere i fasti di un tempo: l’aquila che sovrasta la porta, gli stucchi preziosi e i soffitti alti rimangono segnali di un potere che stride notevolmente con lo stato di degrado in cui si trova oggi l’ambiente».

In effetti i titoli non presuppongono rimandi automatici a quanto rappresentato nell’immagine…
«I titoli delle mie opere sono molto importanti, perché ogni luogo fotografato rimanda a riflessioni legate al mondo cinematografico, letterario, musicale o artistico in generale. È come se ogni spazio proiettasse la mia mente in qualcosa di già visto o comunque di famigliare».

Proseguiamo con la spiegazione de La fabbrica dei fili rossi.
«La foto è stata scattata nel 2014 in un maglificio abbandonato, dopo molto tempo di attività, se non sbaglio interrotta intorno agli anni Sessanta. Quando sono entrato, ho trovato tutto intatto: le macchine da cucire, i filati e persino dei giornali giacevano davanti a me come se non fosse cambiato niente da allora e per un attimo mi è sembrato di essere lì a lavorare insieme agli altri operai. Ho scelto di rifarmi al filo rosso, in quanto simbolo per definizione dei legami e delle relazioni tra le persone, gli oggetti e le tematiche: di fatto ciò che amo creare con il mio modo di concepire la fotografia».

A questo punto la mia curiosità si sposta verso Martyr. Hai trovato proprio così la scena o l’hai ricreata tu?
«Non sono intervenuto sulla scena, l’ho trovata così, mi sono solo limitato ad immortalarla. È stato uno degli incontri più surreali che mi sia mai capitato! Martyr è la fotografia del sotterraneo di un castello medievale in Romagna dallo stile alquanto eclettico. Onestamente non so dare una spiegazione alla presenza di una statua simile in un tale luogo, né tanto meno alla sua strana posizione. In ogni caso rimane il fatto che per me è stato molto complicato fotografarla, perché il filo trasparente al quale era appesa si muoveva in continuazione, rendendo così difficile l’operazione di messa a fuoco.».

Giungiamo infine a The pearl.
«The pearl ritrae una chiesa polacca del Settecento, disegnata da uno degli architetti locali più famosi dell’epoca. Si tratta di una “perla” dispersa nella campagna polacca, per la quale diversi anni fa ci sono stati tentativi di recupero che purtroppo non sono andati a buon fine. Ho realizzato questo scatto l’anno scorso, durante un tour per chiese abbandonate in Polonia».

A cosa stai lavorando al momento?
«Al momento mi sto focalizzando su un progetto che riguarda il tentativo della natura di riappropriarsi degli spazi urbani. Nel contempo porto avanti un lavoro legato alle grandi strutture industriali che mi hanno evocato suggestioni fantascientifiche e non solo. Inoltre, sto valutando diverse opportunità espositive, ma preferirei darne notizia solo quando avrò più certezze circa l’effettiva realizzazione delle stesse».