Attimi di vita - Intervista a Diego Kuffer

Quando e come è avvenuto il tuo approccio al mondo della fotografia?

«Non so esattamente quando sia avvenuto, in ogni caso posso dirti qual è stato il primo oggetto che ho fotografato: il televisore. Avevo circa cinque anni. Allora, dietro a quel gesto, non c’era alcun tipo di pretesa artistica, tuttavia sono convinto ci fosse un’urgenza reale nel puntare l’obiettivo verso quell’oggetto per comunicare a tutti l’esistenza dello stesso. Continuo a sentire quest’esigenza ancora oggi, pertanto negli ultimi dieci anni mi sono avvalso della fotografia come strumento per tradurre la mia inconsapevole energia in immagine».

Qual è il senso della decomposizione della realtà?

«Onestamente non la definirei proprio decomposizione. La maggior parte del mio lavoro è frutto del tentativo di superare i limiti imposti dalla tecnica fotografica stessa. Le mie opere tendono a comprimere tre dimensioni più una: il tempo. Attraverso la fotografia tento dunque di mostrare l’esistenza di questa quarta dimensione, soprattutto grazie all’uso di esposizioni multiple compresse e rimodellate in una singola immagine. Pertanto, penso che il mio lavoro consista più che altro nella ricomposizione della realtà».

Commentiamo insieme le foto di Alidem. Ci puoi descrivere per favore Pião#1 Pião#9?

«Ogni opera fa parte di serie fotografiche differenti: Pião per esempio (che significa “top” in inglese, “superiore” in italiano) si compone di nove immagini. Alidem propone le più rappresentative, in quanto ritraggono rispettivamente l’inizio e la fine del viaggio della vita. La mano che s’intravede nella parte superiore di Pião#1 simboleggia l’energia che i genitori usano per guidare i loro figli nel loro viaggio per l’appunto, mentre in Pião#9 il cammino è ormai giunto al termine e l’energia è libera di sfogarsi in una danza caotica». 

Cosa ci racconti invece di Santa Cecília?

«Santa Cecília è un quartiere di San Paolo del Brasile, la città in cui vivo. Ho cercato di inserire un intero quartiere in una singola immagine e, a tale scopo, ho fotografato tutte le trentuno strade che portano a  Santa Cecília per fonderle in una sola».

Invece cosa intendi esprimere con Transitórios#40?

«Transitórios#40 parla della “dolce vita”. Quando ero bambino, mio papà mi diceva sempre di godermi ogni istante di vita. Tale insegnamento mi è ronzato in testa per molti anni, anche perché allora mi sembrava di non riuscire a capire esattamente cosa intendesse. Da ragazzo concepivo la fotografia come uno strumento per catturare ogni istante della mia esistenza, per decifrarne il significato, ma anche per comprendere come effettivamente avrei potuto trarne diletto. Poi mi sono reso conto che la fotografia mi avrebbe permesso di catturare frammenti di vita non solo tramite immagini nitide, ma anche offuscate. Così ho deciso di dedicarmi a tempo pieno a questo linguaggio artistico, applicando ai miei scatti una tecnica che normalmente viene usata dai registi cinematografici».

In che modo?

«Immortalo gli stessi soggetti più volte, poi li spezzetto e sminuzzo fino a che sono libero di mescolarli in ordine sparso. Così facendo riesco a catturare l’attimo, senza mostrare ciò che è successo con precisione, ma testimoniando almeno che quell’attimo è realmente esistito». 

Per finire, parliamo di Mimeógrafo#13. Mi sembra un lavoro estremamente sperimentale, è così?

«Assolutamente sì. Si tratta di un esperimento attorno al tema del consumismo che sfrutta la tecnica della ripetizione seriale. Il titolo deriva dal nome della prima fotocopiatrice della Xerox che forse non tutti hanno avuto modo di vedere in azione come me: l’odore dei fogli è indimenticabile. Con Mimeógrafo#13 desidero mostrare come le ripetizioni ossessive siano solo un tentativo inutile di evitare il nostro destino». 
  
A cosa stai lavorando al momento?

«Oh, è un segreto!»