Global Landscape - Intervista a Stefano Parisi

Come e quando è avvenuto il tuo approccio al mondo della fotografia? Hai frequentato corsi specifici?
«Ho iniziato a fotografare a vent’anni, principalmente per documentare i viaggi, la mia grande passione. Negli anni ho frequentato diversi workshop fotografici ed approfondito in autonomia lo studio della fotografia. Ho però dall’inizio cercato di alimentare le mie conoscenze del mondo della fotografia frequentando centinaia di mostre fotografiche (una vera scuola di fotografia!) e collezionando libri fotografici, più che dedicarmi alla tecnica, che comunque ho approfondito».

Quale tecnica usi per le tue fotografie? C’è molta post produzione?
«Il mio percorso fotografico si divide in due parti: nella prima ho fotografato prevalentemente a pellicola in bianconero, dedicandomi al reportage ed affidando poi la stampa delle immagini ai migliori stampatori di Milano. Nella seconda parte ho fotografato a colori in digitale, dedicandomi prevalentemente alla fotografia di paesaggio. Anche in questo caso faccio stampare le fotografie. Per quanto riguarda il digitale, la post produzione è ridotta al minimo e non va comunque ad alterare la composizione dell’immagine. In generale, la mia fotografia è molto istintiva e poco o nulla pensata: “vedo un’immagine” e cerco di coglierla al volo, influenzato sicuramente dai maestri ai quali negli anni mi sono ispirato».

Raccontaci qualcosa delle tue influenze fotografiche.
«Potrei citare decine di autori che ho amato e che hanno sicuramente influenzato il mio linguaggio fotografico. Nel periodo in cui fotografavo in bianconero direi Gianni Berengo Gardin, William Klein e Gabriele Basilico su tutti. Attualmente il mio lavoro sul paesaggio risente molto dell’influenza dell’immenso Luigi Ghirri, di quegli autori che hanno partecipato al progetto Viaggio in Italia nel 1984 e dell’onda lunga che questo progetto ha lasciato nel linguaggio fotografico contemporaneo.»

Puoi spiegarci gli scatti della collezione di Alidem per favore? Partiamo da quelli in bianco e nero…
«Alcuni appartengono alla serie Australian Roadhouses del 2006, un lavoro in cui ho documentato dei luoghi di ristoro cercando di farne emergere tutto il loro fascino nell’outback australiano in cui capita sovente di non incontrare nessuno per centinaia di chilometri. Alcuni appartengono alla serie Carnevale di Ivrea del 2007, un lavoro a cui tengo particolarmente e che ho cercato di documentare in modo diverso dal consueto: bianconero invece del colore, grandangolo invece del teleobiettivo, ovvero un linguaggio utilizzato per risaltare lo spirito della battaglia delle arance che caratterizza questo carnevale».

Invece Global Landscapes?
«Global Landscapes appartiene all’omonima serie a colori, un progetto fotografico che porto avanti da anni sul paesaggio antropizzato contemporaneo. Attraverso immagini scattate in paesi e continenti diversi, cerco di cogliere i segni della globalizzazione che rendono molto più sfumate le differenze tra i diversi luoghi del pianeta. Il paesaggio diventa uguale ovunque. Spazi urbani o ambienti naturali fanno da sfondo a oggetti che da una parte paiono surreali, “fuori posto”, ma che nello stesso tempo sentiamo far parte della nostra vita quotidiana. Guardando le immagini, gli ambienti ci sembrano normali, familiari, ma alla fine ci rimangono impressi dei particolari discordanti, come per esempio il cattivo gusto di un’immagine impressa su un camper».

A cosa ti stai dedicando al momento?
«Oltre a proseguire con lo sviluppo del progetto Global Landscapes, in questo periodo sto analizzando e stampando il materiale prodotto all’Expo. Sto scattando molto anche ai concerti Jazz, altra mia grande passione: vedremo in futuro se riuscirò ad organizzare una mostra sul tema».