La “foto-pittura” di Paolo Hyena Lasagni
Quando è nata la tua passione per la fotografia?
«Molto presto, da bambino, grazie a una macchina hipstamatic. Ero molto timido e introverso, in realtà era solo un sintomo precoce della mia attitudine ad usare un linguaggio mirato alla ricerca di una forma espressiva parallela a quella scritta».
Poi questa passione si è trasformata in professione, non è vero?
«Sì, fino ai trent’anni circa la fotografia è rimasta un hobby, poi i miei scatti sono stati notati da alcune persone che lavoravano nella moda, le quali mi chiesero di realizzare delle immagini per i loro redazionali. Io accettai e presto mi accorsi che tutto ciò mi riusciva bene, anche a detta degli altri, così mi addentrai ancora di più in questo mondo fantastico».
Quindi devo dedurre che i tuoi primi lavori abbiano avuto a che fare con la moda?
«Non esattamente. Un’altra mia grande passione è la musica, che tra l’altro pratico, come la fotografia, da quando ero piccolo. In verità i miei primi scatti sono avvenuti sulla scena musicale locale. Nel 2000, per esempio, sono stato chiamato per il tour di Luciano Ligabue in veste di fotografo ufficiale e poco dopo anche da Piero Pelù».
A cosa è dovuto il tuo soprannome “Hyena”?
«E’ un soprannome che mi hanno attribuito fin da ragazzino. Diversi anni fa ho lavorato insieme al mio concittadino Luciano Ligabue per una radio che si chiamava Studio 6, tant’è vero che nel suo film Radiofreccia ci sono diversi episodi che si rifanno a questa esperienza trascorsa insieme. Addirittura un personaggio del film si chiama Hyena come me. Di fatto, salvo alcune scene, tutta la trama di Radiofreccia si rifà a persone o a fatti realmente accaduti. In seguito Luciano ed io ci siamo un po’ persi di vista, fino a che un giorno ci siamo rincontrati e mi ha chiesto di seguirlo in tour. É stata una bella prova di maturità per me».
Poi la svolta…
«Ci sono stati due episodi ravvicinati che hanno segnato un cambiamento importante per la mia carriera da fotografo: il ritrovamento di un manoscritto del ‘400 - aiutando un’amica nell’archivio della biblioteca del mio paese - e la visione delle opere di Anselm Kiefer al museo Banhof di Berlino. In entrambi i casi ho provato delle sensazioni talmente forti da sentire immediatamente la necessità di esprimerle, così mi sono messo subito a lavoro imboccando perciò una strada completamente diversa da quella che avevo percorso fino a quel momento. Da qui deriva il mio interesse per la pittura classica e per la sperimentazione che con il tempo ha influenzato e contraddistinto sempre più la mia intera produzione fotografica».
Anche la tecnica ne ha risentito parecchio…
«Mentre prima scattavo in analogico e mi occupavo della postproduzione in maniera pressoché tradizionale, dopo questi episodi ho cominciato a sperimentare sia diversi materiali di stampa che diversi modi di intervenire sulla stessa. In pratica, parto da una foto integra, poi la distruggo e la ricostruisco - alle volte usando anche strumenti tipici del restauro come colle o resine - per attribuirle così una nuova vita. É un po’ come il baco da seta, dalla cui morte nasce la farfalla. Anche le cromie sono studiate appositamente per rievocare il passato».
Tutto ciò contribuisce a rendere le sue opere dei pezzi unici, è vero?
«Sì. Ho sempre usato il singolo scatto una volta soltanto e, in più, questa tecnica ne rende impossibile la riproduzione».
Quali sono le tematiche che prediligi?
«Finora mi sono ispirato ai classici della pittura: il nudo, la natura morta e il paesaggio. In particolare, la serie Roots vuole essere un omaggio alla storia che, come già ho spiegato, è l’elemento sul quale si fonda tutta la mia produzione fotografica recente. Per realizzare questo progetto mi sono ispirato alla filosofia giapponese secondo la quale l’albero svela la sua identità solo d’inverno, ovvero quando si spoglia di quelle maschere che sono le foglie, mentre le radici rappresentano la nostra storia, le nostre origini».
Progetti futuri?
«In questo momento sto sviluppando le serie Melancholia e nel frattempo lavoro anche all’evoluzione di Venere XXI. Mentre in quest’ultimo progetto ho voluto indagare l’universo femminile come entità misteriosa e impersonale, adesso sento l’esigenza di attribuirgli un volto e un’identità. Si tratta di un passo in avanti lungo un cammino non solo professionale, ma anche umano, che con il passare degli anni andrà ad articolarsi sempre di più».