La poesia negli scatti di Pino Ninfa
Quando hai cominciato ad interessarti di fotografia?
«Sono appassionato d’arte da sempre, mi piace la pittura, ma siccome non sono mai riuscito a dipingere come avrei voluto, ho pensato fosse meglio concentrare la mia attenzione sulla fotografia. Da Catania, mio paese natale, mi sono trasferito in gioventù a Milano e lì ho frequentato la Scuola Umanitaria. A quel punto ho cominciato a muovere i primi passi nel mondo della fotografia, entrando in contatto con validi insegnanti e situazioni che hanno contribuito a creare il mio background culturale».
Successivamente verso cosa si è spostata la tua ricerca?
«Il mio lavoro è maturato e gradualmente si è spostato verso il campo musicale a cui, senza tralasciare il reportage, ho dedicato i primi 15-20 anni della mia vita. In definitiva posso affermare che la musica rappresenta ancora il mio campo d’azione principale, la disciplina a cui ho rivolto gran parte della mia attenzione nella speranza di aver ottenuto risultati soddisfacenti».
Quali sono i tuoi punti di riferimento?
«Tra i fotografi a cui guardo con ammirazione c’è Luigi Ghirri, soprattutto per quanto riguarda la ricerca sul paesaggio. Ma Ghirri non è solo questo: è un pensiero, un modo di essere fotografo che condivido appieno. Un altro fotografo che per me rappresenta una fonte d’ispirazione inesauribile è Mario Giacomelli che reputo artista a 360 gradi, non legato alle mode, ma alla poesia».
Torniamo alla musica e commentiamo insieme le foto di Alidem.... Partiamo per esempio da Funk off.
«Funk off è un concerto che si svolge tutti gli anni a Vicenza durante il Jazz Festival. In questo caso ho cercato di adottare un punto di vista che potesse catturare l’attenzione dello spettatore, ma allo stesso tempo non ho voluto vincolare il mio linguaggio espressivo a etichette o a facili stereotipi. Spesso in questo settore si scatta per realizzare anche calendari e libri, pertanto è necessario andare oltre al semplice documentario. Sono particolarmente affezionato a questa fotografia, perché sono riuscito a trovare un punto di vista particolare che consente allo spettatore di entrare quasi dentro all’evento, permettendogli anche di partecipare per magia all’azione dei musicisti».
Rimaniamo in tema di Festival e parliamo di Ramsey Lewis, Umbria Jazz…
«Fa parte di una serie di foto che ho scattato anni fa al noto pianista statunitense, di cui apprezzo molto l’attività. In questa immagine ho deciso di puntare l’obiettivo in particolare sulle sue mani, perché oltre ad essere molto vive, sono piene di rughe che ne esprimono fortemente il vissuto. Inoltre quelle mani si staccano bene rispetto al pianoforte e, nonostante siano appoggiate sul piano, presentano una conformazione ben precisa che consente loro di vivere di natura propria».
La Fenice è il meraviglioso teatro di Venezia. A che anno risale questa foto?
«È del 2010 e comunque tutte le foto di Alidem sono piuttosto recenti. Trovo che questo scatto sia molto interessante soprattutto per il rapporto che si crea fra lo spazio del concerto e il concerto stesso: una presenza/assenza che ci rimanda ad una serie di emozioni e suggestioni. La semplicità di un palcoscenico vuoto, disadorno e poco illuminato, dà vita ad una relazione con l’evento anche se in quel momento non si sta svolgendo. E poi c’è la cornice del teatro con gli spettatori che, con il loro movimento e con la loro disposizione, contribuiscono a concretizzare questo rapporto di presenza/assenza ancor prima che il concerto inizi».
Andiamo di teatro in teatro, fino a giungere al Teatro Olimpico di Vicenza.
«Quest’immagine potrebbe essere tranquillamente definita una “natura morta in teatro”: non ci sono figure umane, solo ombre, luci e strumenti musicali. L’unica presenza che si intuisce è quella di qualcuno che li ha lasciati lì e che magari li verrà a riprendere: proprio questo parallelismo tra un prima e un dopo costituisce una tematica per me assai affascinante. In poche parole, credo di essere riuscito a ricreare un tempo di attesa che in fotografia è molto difficile da restituire, poiché spesso la temporalità si esaurisce in un click».
Passiamo ora alle due foto scattate in Sudafrica: Capo di Buona Speranza e Soweto.
«È vero che sono state scattate entrambe in Sudafrica, ma in realtà hanno collocazioni completamente diverse. Capo di Buona Speranza è un omaggio alla pittura di Mark Rothko, la cui realizzazione ha richiesto una lunga attesa prima di poter ottenere un’intensa luce naturale (che quindi non è di certo resa grazie a Photoshop). A me non interessa la manipolazione dell’immagine, non amo inserire storie diverse da quelle che mi capita di vivere e vedere con i miei occhi. Sono esigenze personali che non discuto, dipende dai punti di vista».
Soweto invece dove si trova per l’esattezza?
«Soweto è un’area urbana della città di Johannesburg. È la più grande township del Sudafrica e ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della lotta all’apartheid. Questo invece vuole essere un omaggio a Caravaggio in cui si racconta poeticamente lo stato d’animo triste di un uomo che dimostra allo stesso tempo di non volersi arrendere all’immensa povertà che lo circonda. Quando mi recai a Johannesburg per realizzare questo reportage nel 2009, rimasi colpito soprattutto dalla nobiltà d’animo di queste persone, costrette a vivere in condizioni di estremo disagio e miseria. E pensare che nella nostra ben più ricca Europa, seppur in crisi, di nobiltà d’animo ce n’è poca…»
Sei solito tenere anche workshop, vero?
«Certo, per esempio ne ho appena tenuto uno a Bologna. Generalmente ai partecipanti cerco di insegnare ad osservare e a capire cosa si fotografa per dare un senso al proprio lavoro».
Di cosa ti stai occupando al momento?
«A breve eseguirò una performance al Festival di Vicenza legata ad un progetto che si chiama Guerra e Pace, per cui ho coinvolto dei fotografi italiani che hanno vinto il World Press Photo. In esposizione ci saranno alcune immagini di reportage di guerra scattate in luoghi che hanno subito conflitti atroci - come la Palestina, il Sudan e l’Ucraina - accanto ad una serie di foto storiche della Prima e della Seconda Guerra Mondiale. Nel frattempo proietterò delle pagine di libri dell’epoca molto interessanti. Si tratta un progetto multimediale in collaborazione con Jan Lundgren che è un grande protagonista del panorama jazz europeo».