Le vertigini fotografiche di Mark Cooper
Quando e dove è avvenuto il tuo primo approccio con il mondo della fotografia?
«Sono nato nel Lake District inglese, subito sotto la Scozia, un posto meraviglioso. All’età di 7 anni mia nonna mi ha regalato la prima macchina fotografica e a quel punto sono rimasto talmente affascinato dalla possibilità di congelare alcuni momenti di vita che non me ne sono più staccato».
Già a 16 anni i primi fotoreportages, è così?
«Sì, infatti il mio primo lavoro è consistito nella realizzazione di reportage in bianco e nero da proporre ai giornali in qualità di freelance. Questa attività mi ha portato ad esplorare diverse zone della Terra, tra cui il Medio Oriente e l’Africa settentrionale. In realtà nella mia vita ho svolto tantissimi lavori, compreso il pony-express, solo che dopo dieci incidenti in moto dovuti alla mia guida spericolata ho ritenuto opportuno cambiare mestiere».
Non prima di esserti concesso una piccola vacanza in Italia….
«Era il 1993 quando decisi di andare a trovare un amico in Italia. Prenotai il biglietto di ritorno, ma non lo usai perché il penultimo giorno della vacanza incontrai in un locale a Cassinasco Anna Maria, la mia attuale compagna. Un amore a prima vista che mi ha convinto a stabilirmi immediatamente a Montechiaro d’Acqui in provincia di Alessandria, dove tuttora lavoro e risiedo con lei. All’inizio non è stato facile perché, oltre a non conoscere una parola d’italiano, non vedevo nemmeno prospettive lavorative allettanti.»
Tuttavia, non ti sei perso d’animo…
«No di certo! Per fortuna sono sempre stato in grado di ingegnarmi nella vita. Ben presto ho cominciato a interessarmi di fotografia aerea, fino a che, casualmente, ho incontrato il mio primo committente: un costruttore della zona che desiderava immortalare i frutti di 40 anni della sua attività. Quindi affittai un elicottero con pilota e tutto ebbe inizio».
Così è nata Earthscapes.
«Ho volato per 15 anni sui campi della regione in cui vivo, nel tentativo di cogliere l’essenza del paesaggio attraverso le mie visioni dall’alto. Ho realizzato numerose mostre in giro per il mondo, ma anche parecchi libri o servizi fotografici per banche o enti pubblici. Il progetto Earthscapes risponde al desiderio di trasmettere al pubblico la mia passione per le forme più che del panorama, le quali sembrano disegnate da artisti sconosciuti piuttosto che da contadini. Dunque, le foto che rientrano in questa serie hanno anche una forte pretesa pittorica».
Come avvenivano esattamente le tue performances in volo?
«Nonostante avessi sperimentato vari mezzi di trasporto aereo, l’elicottero a due posti e senza portellone è sempre stato l’ideale per il mio lavoro. Imbragato, davo il via al pilota e in un attimo mi ritrovavo a guardare il vuoto. É strano, ma per sentirmi a mio agio ho sempre dovuto trovarmi in situazioni di totale pericolo, con l’adrenalina che scorre nelle vene ed il vento freddo che mi colpisce in faccia».
Poi però, se non mi sbaglio, hai optato per situazioni più sicure…
«In realtà più che una scelta è stata un’imposizione dettata da una crisi economica sempre più influente. Le spese per la fotografia aerea erano altissime e i committenti sempre meno. Così ho deciso di restare a terra per esplorare il paesaggio dall’interno. Dal macro al micro».
Con Elements of the Next Dimension la tua attenzione si è infatti spostata dalla campagna alla città…
«Elements of the Next Dimension nasce da un’unica esigenza: ritornare alla mia infanzia, quando ero solito giocare con i colori vivaci e le forme più varie del caleidoscopio. Milano, con le sue continue sollecitazioni visive, ha rappresentato per me un’occasione per ritrovare le stesse sensazioni che provavo da bambino guardando attraverso quel semplice tubo di cartone. E’ evidente che il rigore campestre non mi avrebbe mai potuto trasmettere tutto ciò; “città”, invece, significava esplorare confini sconosciuti. Nel caso di Atom Heart, ho puntato l’obiettivo su oggetti banali che trovavo intorno a me, allo scopo di restituire loro una nuova vita, un nuovo significato».
E Urban Jungle?
«Urban Jungle costituisce un’evoluzione della serie precedente, nella quale ho cercato di concentrami prevalentemente sui muri colmi di graffiti, cartelli e scritte che - a parer mio - sono dotati di un potere comunicativo enorme. Sia in Urban Jungle che in Elements of the Next Dimension ho sovrapposto tante immagini – alle volte quasi una trentina - lasciando che emergessero in maniera casuale. Le mie opere vogliono porre domande e indurre lo spettatore a riflettere sul significato dell’opera stessa.»
Qual è il fil rouge della tua produzione fotografica?
«L’elemento comune a tutte le mie opere è il desiderio di compiere un viaggio in quella storia favolosa che è la vita. La perdita dei genitori in giovanissima età mi ha portato a maturare un carattere assai timido, a causa del quale ho sempre avuto tendenza a nascondermi dietro la macchina fotografica; pertanto, quest’ultima rappresenta uno strumento necessario a esprimere la mia sensibilità. I miei scatti non sono altro che il racconto del mio cammino in questa lunga esistenza. L’approccio al mondo della fotografia – e qui mi ricollego alla tua prima domanda – per me ha coinciso con una necessità, un’urgenza di comunicare qualcosa che a voce non mi riusciva facilmente. E non è un caso che io sia del tutto autodidatta.»