Luci e nature morte - Intervista a Jaime Lieberman

Come e quando hai scoperto la fotografia?
«É stata un'idea che ho maturato durante un momento di malinconia negli anni turbolenti della mia adolescenza. Ero un ragazzo particolare, non mi interessavano le stesse cose che piacevano agli altri ragazzi. Un giorno, iniziai a preoccuparmi seriamente per il mio futuro e a pensare a quale strada avrei potuto intraprendere nel mondo del lavoro. Guardando una fotografia scattata durante una gita scolastica, ebbi l’illuminazione: farò il fotografo! All'inizio mi sarebbe piaciuto diventare un fotoreporter e viaggiare per il mondo, tuttavia mi sono reso conto che l’avvento dell’era digitale aveva offerto a chiunque di definirsi fotografo e la cosa mi deluse molto. Abbandonai l’attività per qualche anno, ma qualcosa nel profondo del mio animo mi diceva che aveva bisogno di andare avanti. Il mio lavoro è il risultato di anni di sperimentazioni con la luce e di impegno nella produzione di immagini che non condividevo con nessuno».

Puoi raccontarci qualcosa in più a proposito delle fotografie selezionate da Alidem?
«Le opere di Alidem fanno parte di Still Life 2.0, un progetto in cui tento di rappresentare la contemporaneità attraverso gli oggetti, perché sono convinto che le nostre cose siano l’espressione della nostra identità. Gli oggetti sono permeati dall'anima dei loro proprietari. L'estetica e la luce sono per me prioritari nella realizzazione dell’opera: a volte cambio il colore di alcuni oggetti per far sì che si mimetizzino con lo sfondo, altre volte invece per farli risaltare».
 
Come descriveresti la tua tecnica?
«Tutto il mio lavoro ruota attorno alla luce, perché credo che quest’ultima sia per la fotografia ciò che il pennello è per la pittura. Volevo ottenere punti di luce uguali a quelli che compaiono nelle nature morte della pittura classica, laddove l’unica fonte di luce è rappresentata da una lampada. Sono solito lavorare al buio completo e, dato che uso tempi di esposizione lunghi, riesco a “dipingere” ogni zona della scena per mezzo di questa piccola lampada. Dopodiché ritocco e sovrappongo le fotografie in digitale e decido dove posizionare luci e ombre. Alcune fotografie sono il risultato della sovrapposizione di più di trenta immagini».

Cosa significa per te “fotografia”?
«Essere fotografo è una scelta di vita: il mondo ti appare differente, puoi sempre cercare di inquadrare la realtà per individuarne la bellezza, ovunque. Luci e ombre hanno un significato potente, le silhouettes e la rifrazione della luce prendono il sopravvento sugli oggetti. La fotografia ti permette di vedere il mondo da uno spioncino».

Sei ispirato da qualche fotografo o artista?
«Ci sono così tanti artisti che mi ispirano! Fra i fotografi, Ansel Adams, Henri Cartier-Bresson, Robert Mapplethorpe, David Lachapelle, Helmut Newton, Peter Witkin, Jan Saudek, David Hockney, Ricard Avedon, Chema Madoz, Guy Bourdin. Come pittori, invece, Juan Sánchez Cotán, l’Arcimboldo, Isabel Quintanilla, Roberto Bernardi, Pedro Campos, Kandisky, Salvador Dali e Richard Estes. E molti altri!»

Di che cosa ti stai occupando attualmente? Hai qualche progetto futuro?
«Sto lavorando a degli still life ancora più audaci. I cambi di luce e il senso della scena sono molto più ragionati e precisi. Ho anche altri due progetti in cui insisto sulla luce: uno di questi ha come protagonista la città, mentre l’altro riguarda il corpo in movimento. Nel primo ho usato la luce della città per creare delle immagini astratte, piene di movimento e di emozione che ne restituissero la frenesia. Nel secondo, grazie ad un uso combinato di luci, ho ottenuto dei personaggi misteriosi fantastici che rappresentano l'inconscio dell'uomo e gli stati d'animo più reconditi».