Rigore e simmetria. Intervista ad Angelo Morelli
Come e quando è avvenuto il tuo approccio alla fotografia?
«Mi sono avvicinato alla fotografia dopo la laurea in Ingegneria. Ho smesso di lavorare in quel settore quando ho capito che sarei voluto diventare un fotografo. Per alcuni anni ho assistito un professionista poi ho iniziato un percorso autonomo».
A che genere di fotografia appartiene il tuo lavoro?
«Principalmente mi dedico a paesaggi e architetture anche se in tutti questi anni ho realizzato anche diversi reportage sociali e di viaggio oltre a lavori di fotografia industriale».
Cosa ricerchi nei tuoi scatti?
«Da un punto di vista formale tendo ad attribuire una certa importanza alle geometrie alle linee e alla composizione. Poi ovviamente dipende dal contesto e dal tipo di lavoro che devo svolgere: i significati variano a seconda delle diverse situazioni a cui devo far fronte. Spesso in uno scatto di architettura l’aspetto più rilevante è la forma invece nei reportage sociali è il significato che conta».
E nelle fotografie di Alidem?
«Le fotografie di Alidem sono caratterizzate da una certa omogeneità stilistica che consiste perlopiù nel rigore delle forme nella semplicità e nella pulizia della resa finale. Per me la composizione e la forma vengono prima di tutto».
Perché usi prevalentemente il bianco e nero?
«Perché i toni neutri aiutano l’occhio a non distrarsi dalla percezione delle geometrie. L’unico scatto a colori è Palazzo della Civiltà Italiana ma in realtà anche in questo caso ho cercato di abbassare le tonalità cromatiche per far sì che l’aspetto formale prevalesse su tutto il resto».
A proposito del Palazzo della Civiltà Italiana a quando risale questa fotografia?
«Al 2013 e rientra in una collezione di immagini di architettura. Per questo progetto ho scelto di soffermarmi su quattro città italiane che ho ritratto attraverso le foto di alcuni monumenti i quali però non volevo fossero così conosciuti a livello mondiale da passare per simboli (come il Colosseo per esempio)».
«Insieme a Portici di Piazza Chanoux è stata scattata nella mia regione d’origine: la Valle d’Aosta. Ormai vivo da tempo a Torino ma continuo a tornare spesso da quelle parti. Allora mi trovavo su una mongolfiera perché mi avevano assegnato un servizio in proposito».
Da cosa pensi derivi questa tua insistente attenzione nei confronti della schematizzazione delle forme?
«Credo che in buona parte derivi dai miei studi dalla mia formazione. Trovare forma e ordine anche dove apparentemente non ci sono è una sorta di sfida un tic al quale mi abbandono volentieri».
C’è per caso qualche fotografo a cui ti ispiri in particolar modo?
«Tra i grandi della fotografia citerei sicuramente Joseph Koudelka: le sue opere mi trasmettono molto. L’elemento comune alla maggior parte dei suoi lavori di paesaggio e architettura è un vago senso di solitudine e malinconia che lo connota fortemente».
Progetti futuri?
«In questo momento mi sto concentrando su una mostra che spero si concretizzi presto grazie al sostegno di un’istituzione pubblica. In esposizione ci sarà un progetto fotografico legato ai culti religiosi praticati a Torino. Non a caso è da circa un anno che frequento chiese moschee e centri di preghiera per cercare di restituire il ricco e variegato panorama religioso del capoluogo piemontese».