Ugo Ricciardi. Un mondo fantastico
Ugo, tu sei autodidatta per scelta. Perché?
«Quando da ragazzo iniziai a chiedere a vari fotografi professionisti quale scuola sarebbe stata meglio frequentare per intraprendere questo mestiere, la risposta è sempre stata la medesima: vai e lavora. Anch’io oggi credo darei lo stesso consiglio. Ci sono sicuramente delle ottime scuole, in Italia e all’estero, ma imparare la tecnica sul campo, secondo me, resta la strada migliore per capire cos’è realmente la fotografia. Questo naturalmente da un punto di vista tecnico, tutto il resto (il gusto, la creatività e la cultura) lo si acquisisce leggendo, viaggiando e guardando molte immagini, continuamente. Un fotografo, qualsiasi genere tratti, deve essere curioso».
Nel tuo curriculum si notano parecchi nomi prestigiosi di fotografi e studi con cui hai collaborato….
«In realtà ho iniziato dal basso, come archivista presso l’agenzia di fotogiornalismo La Presse, a Milano. È stato chiarificante, anche perché, non appena ho iniziato a fotografare per loro, mi sono reso conto che il reportage non faceva per me. Lavorare al Superstudio di Milano e per il fotografo Giuseppe Pino sono state indubbiamente le esperienze più utili in assoluto. Nello specifico, Superstudio mi ha consentito di imparare perfettamente la tecnica e di entrare in contatto con bravissimi fotografi, mentre il lavoro con Giuseppe Pino mi ha permesso di acquisire nozioni che vanno al di là della mera fotografia. Ho imparato tanto da lui, poi naturalmente ho cercato e trovato la mia strada».
Da parecchi anni conduci una ricerca artistica che trova espressione negli scatti di Alidem. Ci puoi spiegare per favore le fotografie della serie Demoni Occasionali tra le Nubi (#1, #2, #3, #4, #5, #8)?
«È presto detto: guardare questo progetto è come sdraiarsi in un prato ad osservare le nuvole. Non ci sono concetti di fondo che devono essere spiegati, non c’è nessun significato nascosto inteso ad attribuire un senso a ciò che appare. Naturalmente non si tratta di nuvole vere, ma la sensazione è la stessa. Quando sciogli in acqua un liquido colorato, più o meno denso, inizia a muoversi, anche se l’acqua è completamente ferma. Con una lentezza ipnotica si creano delle forme, lunghe volute di colore ed è difficile poi staccarsi da quello spettacolo. A seconda poi che si intervenga con movimenti e soluzioni diverse, il tutto prende la forma di un micro-universo in continuo cambiamento: si generano tempeste, i cieli si infrangono e dalla densa nebbia fuoriescono demoni della mente o altre figure di fantasia».
C’è molta postproduzione nelle tue opere?
«La postproduzione è importante, come in tutti i miei lavori. Non solo per poter ottenere il massimo risultato da quello che vedo, ma anche perché è parte determinante del processo creativo. Molti bravi fotografi riescono ad ottenere immagini forti puramente da quello che vedono, io invece ho bisogno di intervenire, di dare la mia interpretazione, di mostrare quello che ho visto e non ciò che mi è capitato di vedere».
La figurativa Unnatural si discosta dalle altre foto più astratte. Cosa ci racconti di questa immagine?
«I fiori sono sempre stati una mia grande passione, perciò ritornano spesso nelle mie immagini. In questo scatto ho voluto sperimentare diverse strade per affrontare un tema gradevole ma inflazionato, mostrando allo stesso tempo la mia personalissima visione a riguardo. In generale, sono affascinato dal cambiamento, dalla trasformazione e Unnatural ne è un ottimo esempio. Qui i fiori non sono più soggetti desiderabili, ma elementi sconvolti da una tempesta che li immerge in un brodo primordiale, trasformandoli in qualcosa di differente. Anche la scelta dei fiori è fondamentale: non volevo usare rose o altri fiori comuni, ma soggetti estremamente particolari, quasi artificiali, Unnatural per l’appunto».
Progetti futuri?
«Ho appena terminato un lavoro importante - anche grazie all’aiuto del mio staff – che, tra progettazione e realizzazione, mi ha impegnato un anno intero. Il titolo sarà Blown Away, tratterà il tema della fine del mondo e, ancora una volta, la trasformazione».